venerdì 25 maggio 2012

LA MADONNA DEGLI ANGELI


LA MADONNA DEGLI ANGELI                                
di Roberta Travaglini

ZIO, ZIOOOO. Siamo arrivate!
Sembrava un grido scaramantico alla conquista di un assurdo salvacondotto per accedere ad un albero di pesche, il cui fascino era nascosto nella proibizione del furto dei suoi frutti.
Ora un gruppo di giovani in gita accompagnate dalle due suore del paese che si avventura nell'impresa, rende il tutto ancor più emozionante. E quella gita, il due di agosto, in occasione della Madonna degli Angeli, ormai da almeno un paio di anni aveva nel suo programma anche la sosta ardita nel campo altrui. Faceva parte di un gioco che sarebbe difficile definire del tutto scorretto, in fondo lo zio era avvisato del nostro arrivo e avrebbe potuto in qualche modo provvedere a scacciarci.
Non è mai successo in realtà. A distanza di anni viene da pensare che il proprietario potesse avere una specie di tacito accordo con le suore, ma almeno per quanto mi riguarda direi di no, o che semplicemente preferisse riposare a quell'ora, oppure che, ultima supposizione, fosse piacevolmente divertito dalla situazione.
Quelle pesche erano particolarmente gustose, calde del sole della giornata perché la sosta all'albero era prevista al rientro, nel tardo pomeriggio, più o meno a metà strada tra il convento del Monte Mesma e Invorio dove alcune ragazze acceleravano il passo improvvisamente, convinte di non essere viste, per oltrepassare di nascosto il recinto della proprietà dopo quel richiamo, che una volta ripetuto e rimasto senza risposta, regalava un po' di tranquillità all'azione.
Era invece regolare la sosta dall'anziana signora che poco più in là, ma all'andata, ci riforniva con gioia di qualche pera appena colta. L'albero, piuttosto vecchio, dominava nella piccola corte dove razzolavano libere le galline.
Negli anni la donna, assetata di chiacchiere, ci aveva raccontato a puntate la sua vita, di quando era morto il marito ancora giovane, di come lei avesse dovuto provvedere da sola all'unico figlio maschio, di quando Matteo, così si chiamava il figlio, si era sposato ed era andato a vivere in  città, lasciandole un po' di solitudine. Ma era un bravo ragazzo e la raggiungeva sempre appena possibile, con o senza famiglia. Le nipoti erano, invece, dei veri terremoti, d'altronde la campagna era sempre una scoperta per loro.
La casa, a differenza di quelle a due piani con ringhiera e pergolato di vigna, tipiche della nostra campagna, era incredibilmente piccola. Un solo piano quello delle camere da letto e a piano terra una cucina piuttosto ampia con a fianco una stanza dispensa dove campeggiavano ancora un paio di damigiane ed un tino.
Oltre il cortile si estendeva la proprietà adibita a frutteto e ad orto che sicuramente qualcun altro gestiva insieme alla donna.
In realtà il pergolato di vigna non mancava, ma costituiva una specie di gazebo in un angolo, appena più in là dell'albero di pere dove un tavolo in cemento e due panche di legno ci accoglievano mentre le ragazze scorrazzavano ovunque.
Da ormai qualche anno ci si avviava al mattino, tempo permettendo, con l’entusiasmo del gruppo e la spensieratezza delle semplici cose di allora: chiacchiere e risate sarebbero state le uniche complici nella novità della giornata.
Si partiva da Invorio, dalla frazione della Mornerona con il consueto pranzo al sacco e la borraccia da riempire alla fontanella prossima all’imbocco del sentiero che costeggiava l’area paludosa della Torba e che conduceva alla salita per Bolzano Novarese. Di quella palude in cui si pescavano le carpe e l'acqua era ancora visibile, restano ora solo alcuni segnali, le canne e l'erba alta e sfilacciata che accorpa il disordine del paesaggio che muta nel tempo.
Si partiva, dopo qualche schizzo di troppo alla fontana e i primi rimproveri di rito.
Il sentiero, all’ombra di robinie, castagni e noccioli, non era dei più luminosi, ma consentiva di evitare la strada principale e di rimanere in piano.
Sul ponte dell’Agogna, appena prima della salita era impossibile non fermarsi. Mi divertivo pure io a gettar sassi a gara mentre le ragazze più grandi mi facevano notare poco più in là il punto più profondo dove, dicevano, si può anche nuotare. In effetti in estate frotte di giovani trascorrevano una vera e propria stagione balneare sulle rive di quel torrente e soprattutto un po' più a monte, dove l'acqua era più profonda in prossimità della centrale idroelettrica.
Arrivati a quel punto del cammino lo sguardo che si alzava dal ponte al momento di ripartire ripeteva nella mia mente il pensiero di sempre. Come si poteva vivere in quella casa triste e isolata, tra acqua e bosco poco più in là, senza il sole che scalda l'inverno?
Poi si saliva. A destra il vallone umido e in ombra. A sinistra il colle di castagni ordinati come si conviene ad una selva che frutta.
Solo al cimitero di Bolzano la strada spiana, il paesaggio si dilata ed inizia la discesa verso il paese, ma a quel punto si poteva imboccare la scorciatoia, tagliando a destra prima dei tornanti per la via che permetteva di arrivare in minor tempo in prossimità dell’imbocco della Via Crucis che conduce al convento.
A volte mi capitava di lasciare per un attimo in sottofondo il vociare delle ragazze per cogliere il sapore del bosco di castagni, almeno fino all’oratorio di S. Elisabetta, meditando nella semplicità dei passi che procedevano sull'acciottolato interrotto da sassi disposti per il lungo a formare dei gradini.
C'è la strada. Siamo quasi arrivate, suora.
E così si attraversava la carrozzabile per proseguire lungo il sentiero che costeggia il muro perimetrale del convento dal quale sporgono alberi secolari.
Nell’ultimo tratto, prima di raggiungere il piazzale, comparivano invece le ultime stazioni della Via Crucis che sale da Lortallo.
Non si può sorvolare sulla differenza di stile delle cappelle, decisamente più curate nell’architettura, negli affreschi, impreziosite alla base da versi in rima.
C’era sempre qualcuno che osservava più di altri. Una volta due ragazze mi raggiunsero di corsa per farmi notare la diversa scrittura che caratterizzava i versi pari da quelli dispari. Chissà perché?
In effetti, chissà perché?
Poco dopo si arrivava al piazzale dove un tiglio secolare, oggi sostituito da un ulivo, dominava estremo contemplatore il paesaggio e come sempre si provava un primo senso di fine. Metà gita era conclusa, metà di quella gita che qualche ragazza avrebbe voluto non terminasse mai. Ma le emozioni si depositano e rivivono in altro modo come del resto quel legno d'ulivo che nel chiostro, oggi, parla in forma nuova.
Ci si riuniva così al gruppo di persone che si sarebbe predisposto alla Messa e al successivo riposo di un pranzo al sacco condiviso, non prima, però, di uno sguardo al lago e nei giorni più limpidi al Monte Rosa che svetta.
Nei pensieri che si affacciavano sull'acqua, tra i campanili della costa e l'isola di S. Giulio, restavano ancora le ore del rientro a piedi e un assalto.
All'albero.  

Ispirato ad un racconto materno

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